Nei secoli fedeli
di Carlo Bertani
Non v'è parola che suoni bene sulle labbra dei re come la parola "perdono".
William Shakespeare – Riccardo II – Atto V, Scena III
Dall’Iraq si susseguono notizie di massacri contro cittadini inermi, famiglie sterminate all’interno delle loro case con l’esplosivo, ragazzini ammazzati come cani agli angoli delle strade. Perché si giunge a tanto? Eppure, i giovani soldati americani che sparano non sono dei marziani e neppure dei selvaggi analfabeti: sono persone come noi, che prima di pattugliare le polverose strade irachene navigavano in Internet seduti alle loro scrivanie d’adolescenti, corteggiavano le ragazze, giocavano a baseball o a calcio.
Come può avvenire la brutale trasformazione che rende un giovane aperto alla vita un assassino? Cosa muta nel suo animo per condurlo a varcare i confini della comune morale e scatenare gli impulsi del sangue? Per rispondere a questa domanda dobbiamo soffermarci a riflettere sulle strategie d’addestramento dei militari, di qualsiasi nazione essi siano.
Il passaggio dall’esercito di leva a quello professionale è il primo passo: i legami con la società vengono tranciati di netto, nel momento stesso nel quale il militare varca il portone del centro d’addestramento. Mentre nell’esercito di leva c’erano ragazzi ventenni che erano “prestati” alle armi per un determinato periodo, scegliendo la carriera militare il giovane sa che da quel momento in poi quella sarà la sua “casa” e quello il suo mondo.
Qui hanno buon gioco le tecniche psicologiche d’addestramento, che iniziano ad inculcare nel giovane un semplice concetto: il mondo che hai lasciato ti ha rifiutato e noi ti abbiamo accolto; non dare più ascolto a quel mondo che ti ha gettato via come uno straccio inutile, ma a noi che ti trasformeremo in uno specchio lucente.
Lo splendore che dapprima abbaglia si chiama “onore” – concetto assai vago nella miseria della guerra moderna, estinto da almeno un paio di secoli nella prassi militare – con il quale il giovane viene invitato a misurarsi con schiere d’eroici soldati che, prima di lui, illuminarono di gloria il battaglione.
Il secondo passo è il più iniquo e subdolo: siccome sei stato rifiutato, solo noi ti proteggeremo e soltanto i tuoi commilitoni dovrai proteggere, con un patto di sangue che – come tutti i patti di sangue – non potrà che generare altro sangue.
Questo è il giovane che, terminato l’addestramento, sbarca in Iraq senza conoscere la lingue e le tradizioni di un altro popolo, senza saper cogliere la differenza fra un guerrigliero ed un padre di famiglia che si reca al lavoro. Spaurito, si rifugia ancor più in ciò che gli resta: gli amici, i commilitoni con i quali si è addestrato, gli altri soldati che – prima di lui – hanno percorso il suo sentiero.
Ecco da dove nasce “l’uomo nuovo” che dovrebbe portare la “democrazia” in quel paese martoriato: da un coacervo di pulsioni tutte tese soltanto a difendere una divisa ed a colpire chiunque non la rispetti o l’attacchi. Ogni mediazione intellettiva scompare e se – come ad Haditha lo scorso novembre – una mina uccide un commilitone si spara all’impazzata uccidendo chi capita, donne e bambini – non importa – perché ciò che offende il plotone deve essere offeso giacché tocca corde profonde, ossia l’unica istituzione che il ragazzo oramai riconosce, alla quale può fare riferimento e dalla quale può sperare di trovare aiuto.
Diversa è la situazione per i soldati israeliani (di leva), i quali hanno talvolta contestato gli ordini e centinaia di essi hanno preferito il carcere militare piuttosto che compiere azioni assassine nei territori palestinesi. La differenza? I soldati di Tzahal sono dei civili che prestano servizio militare e sanno bene che – terminata la detenzione – potranno tornare alla vita civile. Ciò non significa che finire in un carcere militare sia una scelta facile: per tutta la vita dovranno giustificare il loro atto e pochi saranno disposti a comprenderli.
Negli USA nessuno si è mai opposto alla strategia d’addestramento imperante – dettata dallo stesso Samuel Huntington, uno fra i primi neocon e forse il più ideologicamente radicato, nelle undici edizioni del suo “Manuale del soldato USA” – ed ha provato a criticare il modello?
I due canarini
Nanterre, poi Milano, Francoforte, Vienna... l’Europa studentesca prende fuoco in quel maggio del 1968: c’è poco senso e tanta voglia in quella rivolta. D’altronde, quando mai si può chiedere ad un rivoluzionario d’essere assennato?
La rivolta è iniziata prima negli Stati Uniti – a Berkeley, in California – perché i giovani americani hanno un motivo in più per ribellarsi: per loro non si tratta soltanto di mettere in crisi il sistema di potere, bensì di rifiutare la cartolina militare, di non farsi ingabbiare in una divisa con un fucile in mano.
La guerra è lontana ma il dolore è vicino: nelle risaie del Vietnam si muore, ma è in America che si piangono i figli che tornano in un sacco di plastica, sbarcati dai grandi C-130 dell’USAF. Prima della fine della guerra, torneranno nei sacchi in 60.000, più una miriade di feriti e mutilati: una generazione distrutta.
Non fu così per la generazione che combatté le seconda guerra mondiale, che tornò dalla guerra vittoriosa e senza sensi di colpa collettivi e condivisi: in Vietnam fu diverso, fu la guerra stessa ad entrare in crisi nelle menti di chi la doveva combattere.
Passata l’infatuazione della propaganda, e dimenticato l’orgoglio della divisa, ai giovani che partivano per il Vietnam rimanevano i dubbi per una guerra combattuta contro un nemico invisibile, in un territorio lontano e così diverso dal proprio, senza trovare una valida ragione per quello che stavano facendo.
Nelle risaie dell’Indocina si consumò il dramma di una generazione, che sarà tormentata da ciò che vide per sempre, finché avrà vita: non basta e non basterà mai il revisionismo di Hollywood – quello di We were soldiers, per intenderci – a pacificare le coscienze.
Mentre in Europa e negli USA si urla contro il potere – e si vorrebbero sostituire l’immaginazione e la fantasia al paternalismo ed alla retorica – la compagnia Charlie avanza in una delle mille risaie del Vietnam: tutte uguali, al Nord come al Sud.
Dov’è il nemico? Charlie (così gli americani chiamavano i Vietcong) può essere dappertutto: può nascondersi per mesi alla tua vista, ma sai che t’osserva. Ti guarda attraverso gli occhi socchiusi dei vecchi nei villaggi o nello sguardo neutro delle giovani contadine che mondano il riso.
Poi si fa vivo, compare quando meno te lo aspetti. Mentre stai per addormentarti sotto le stelle – e ti rifugi nel sogno d’essere in Arizona o nel Montana – la jungla prende fuoco, sprizzano faville dal nero dei manghi e dalla profumata vegetazione tropicale: qualcuno urla di rabbia in una lingua sconosciuta, qualcun altro urla di dolore nella tua lingua.
Così nasce lo spirito di corpo, oltre le convenzioni e le opinioni; si vive una sospensione del vivere e quel Limbo è uguale per tutti, intriso d’angoscia, di paura e di tormenti: lentamente la tua vita s’attenua, scompare e si scioglie nella vita del plotone.
Ci si salva o si va a fondo tutti insieme, questa è la legge del plotone; nemmeno i morti si lasciano al nemico, perché i loro corpi fanno parte di quell’unico organismo che si muove nella jungla: il plotone, la compagnia. Quasi non esiste più l’esercito, quello con la “E” maiuscola: si fottano i generali e le loro stellette; i generali se ne stanno al sicuro a Saigon ed a Da Nang, mica vengono a prendersi le fucilate da Charlie.
Ogni plotone, ogni compagnia finisce per avere una storia a sé; un girone infernale dopo l’altro scrive con il sangue la sua storia, la interseca appena con il ricordo della Patria lontana: lo sussurra soltanto – sommessamente – quando c’è un sacco di plastica da caricare su di un elicottero.
Tutti hanno perso un amico in Vietnam, nessuno può estraniarsi e giocare il ruolo della verginella: anche le giovani reclute appena giunte – se sopravvivono al primo impatto con Charlie – diventano presto silenti comparse del plotone, attoniti spettatori dell’orrore.
Il vuoto regna nelle menti della compagnia Charlie mentre rastrella la solita risaia, minuscolo tassello di un organismo che chiamano Vietnam: il caldo e la fatica fanno il resto, e si cammina senza pensare.
Si passa nei villaggi e si cercano informazioni; le solite domande: se hanno visto gente armata nei dintorni, se ci sono soldati regolari del Nord Vietnam nella jungla. Promettono favori e qualche spicciolo, ma le risposte sono sempre le stesse: non c’è nessuno, io pianto il riso, io raccolgo il riso, io prego gli antenati. Eppure Mike e David non sono stati uccisi dal riso e dagli antenati: sono morti vomitando il loro sangue su questa terra che brulica di vermi e d’insetti, col ventre squarciato ed il sangue che usciva a fiotti, con le compresse di medicazione premute contro le viscere dai commilitoni per non lasciar sfuggire la vita; non andartene, non andartene proprio adesso...
Succede allora che una risposta troppo evasiva, due occhi che trasmettono odio facciano passare il Rubicone, sollevino la mente dalle tradizioni e dai regolamenti: in quell’istante si torna ad essere bestie fameliche in cerca di vendetta – sangue scaccia sangue – ed il sangue di Mike che usciva a fiotti dalla bocca è ancora troppo vicino, troppo radicato nella memoria collettiva del plotone.
Parte una scarica di mitra e qualche corpo rimane nella polvere: ora tutti si muovono rapidamente, americani che corrono a vedere cosa è successo e vietnamiti che piangono, che urlano, che inveiscono.
Qualcuno non capisce cos’è successo, altri non s’interessano a capire: l’odio distilla lentamente ma inesorabilmente, corre veloce dai cappelli di paglia ai caricatori dei fucili. Poi sborda, deflagra e due memorie collettive si scontrano: da un lato l’odio silente dei contadini, dall’altro quello rabbioso del plotone; il sangue di Mike e di David annebbia gli occhi, e si spara.
Si spara, si spara all’impazzata su tutto quello che si muove. Giovani, donne, vecchi, bambini, animali, capanne: tutto deve essere distrutto per esorcizzare la paura e purificare il sangue di Mike e di David, per lavare quella macchia di terrore dalla memoria condivisa del plotone.
Non contano più gradi o comandi, suppliche o invettive: il rumore delle armi copre tutto in un parossismo di tregenda, di sacrificio propiziatorio.
Il capitano Medina ed il tenente Calley – che verranno in seguito accusati d’infamia – non sono nulla in quel girone infernale: anche i loro gradi si sono sciolti nell’acre odore della cordite, nel frastuono infernale dei mitragliatori.
Chissà quando sarebbe finita la mattanza. Giungono casualmente dal cielo due uomini: il tenente-pilota Hugh Thompson ed il soldato Lawrence Colburn, mitragliere di destra dell’elicottero OH23, 123° squadrone della “Cavalleria dell’Aria”. Osservano attoniti quel macello che sta avvenendo sotto i loro occhi: non capiscono. Poi Thompson decide d’abbassarsi per domandare cosa sta succedendo, cosa significano quei mucchi di cadaveri addossati ai bassi argini delle risaie: i due dell’elicottero non fanno parte del plotone, non sono preda della perfida ipnosi. Dal basso rispondono di farsi gli affari loro, che lì va tutto bene e che stanno facendo soltanto il loro dovere.
Thompson riflette qualche secondo, poi prende la decisione che più gli costerà cara nella vita, da militare e da civile: ordina al mitragliere Colburn di puntare la mitragliatrice pesante dell’elicottero sulla compagnia Charlie e, se non finisce la mattanza, di sparare.
Una raffica d’avvertimento, che passa alta sopra alle teste di Medina e di Calley, li fa rinsavire: impietriti, fermano il massacro.
Thompson e Colburn, con il loro intervento, riuscirono a salvare la pelle agli ultimi 10 vietnamiti che ancora erano in vita nel villaggio di My Lai, ma le vittime accertate furono 504, soprattutto donne, vecchi e bambini. Ovviamente ci fu un processo, ma tutti sappiamo come vanno a finire queste cose: non ci fu praticamente punizione per nessuno, giacché My Lai fu uno solo dei molti macelli senza senso operati dagli americani in Vietnam.
Anzi, qualche punizione – non apertamente dichiarata ma concretamente sottesa – ci fu: in tutti i processi nei quali Thompson e Colburn vennero chiamati a testimoniare, gli inquirenti militari non cessarono mai di chiamarli “i due canarini”.
Oggi, i due provano a spiegare ai loro figli Abu Ghraib: ci provano come possono, come riescono, tanto sono diventati – per l’Esercito degli Stati Uniti – soltanto due “canarini”, due soldati che avevano provato a “cantare” una canzone diversa da quella che cantò la compagnia Charlie a My Lai, Vietnam centrale, 1968.
Non fate prigionieri!
Il 10 luglio del 1943, 160.000 soldati anglo-americani, 600 carri armati, 1.800 cannoni e 14.000 automezzi prendono terra presso Noto – sulla costa meridionale siciliana – per dare l’assalto al più debole alleato di Hitler: l’Italia. La tempesta di fuoco è impressionante e la supremazia tecnologica senza pari, ma non sufficiente per portare a termine quella “guerra lampo” che i comandi alleati s’attendono: ci vorranno 38 giorni di combattimenti e 4.000 morti per arrivare a Messina.
Contrariamente a quanto avevano raccontato loro gli ufficiali superiori, italiani e tedeschi combattono campo per campo, oliveto per oliveto.
Proprio in mezzo alle vigne ed agli olivi sorge il piccolo aeroporto di Biscari – un campo secondario – dal quale però decollano i micidiali Ju-87 Stuka tedeschi per colpire le retrovie americane. Il 14 luglio 1943 il 180° reggimento di fanteria USA va all’assalto dell’aeroporto, difeso da un reparto italiano di tiratori scelti e dai paracadutisti tedeschi della “Hermann Goering”: i fanti del 180° non hanno mai combattuto e l’attacco al piccolo aeroporto è il loro battesimo del fuoco (1).
Lo scontro è aspro e solo verso mezzogiorno le truppe dell’Asse iniziano a cedere: un gruppo di 38 soldati italiani s’arrende e gli uomini s’accoccolano nella polvere bruciata dal sole siciliano, stanchi, stufi di guerra, pronti a finire dietro al filo spinato di un campo di prigionia. Invece, il capitano John T. Compton dà un ordine che sulle prime non è nemmeno compreso ma che viene prontamente attuato: i 38 italiani vengono allineati al bordo della strada e fucilati all’istante, senza motivo ed in oltraggio a tutte le leggi di guerra, ma non finisce qui.
Poco dopo s’arrendono altri 45 italiani e 3 tedeschi, 38 dei quali (probabilmente quelli che erano in grado di camminare) sono affidati alle cure del sergente Horace T. West per essere portati nelle retrovie ed essere interrogati.
Il sole cuoce il cervello sotto il pesante elmetto e ci sono 14 chilometri da percorrere a piedi per giungere alla meta. Forse condizionato dal comportamento del superiore, forse disturbato dalla lunga marcia sotto il sole cocente, il sergente West dopo un paio di chilometri si volta e sventaglia con il mitra la colonna dei prigionieri.
C’è chi muore all’istante, chi è ferito, chi tenta di fuggire: implacabile, il sergente West riserva un’altra raffica per chi si allontana poi, con la pistola d’ordinanza, dà il colpo di grazia a chi geme a terra, a chi chiede pietà, a chi striscia per raggiungere il riparo di un cespuglio.
Inutile raccontare che tutto rimase impunito: se nemmeno uno dei piloti americani che causarono – con il loro colpevole comportamento in aria – la tragedia del Cermis ha pagato, come pretendere che qualcuno pagasse per quei crimini di guerra commessi nel girone infernale della Sicilia nel 1943?
Per puro caso, il cappellano militare William E. King s’imbatté il giorno seguente nei cadaveri lasciati a gonfiare al sole – che presentavano quasi tutti i segni del “colpo di grazia” – e chiese conto ai comandi dell’accaduto. Tutto fu insabbiato poiché saltarono fuori tanti e tali “altarini” che la Corte Marziale USA decise precipitosamente di condannare West all’ergastolo (ma non fu degradato!) da scontare, ovviamente, negli USA: pochi mesi dopo era libero come un uccellino.
Ciò che fece precipitosamente chiudere l’inchiesta furono le deposizioni d’alcuni militari USA, i quali affermarono – candidamente – d’aver soltanto eseguito gli ordini, giacché sulle navi che li portavano in Sicilia avevano ascoltato un proclama, dello stesso generale Patton, che li esortava a “non fare prigionieri”. Nessuno seppe più nulla di quei soldati italiani, nemmeno il loro nome: furono probabilmente conteggiati nel novero dei “caduti in combattimento”, e neppure oggi le famiglie sanno se fu realmente così oppure se caddero sotto i colpi degli aguzzini americani, che avevano scambiato la Sicilia con il Montana, le truppe italiane con il Little Big Horn.
Buon sangue non mente
Ogni albero ha le sue radici, e gli Stati Uniti d’America – invece di correre per il pianeta con la parola “democrazia” sulle labbra – farebbero meglio a chiedere perdono ed a provare vergogna.
All'alba del 29 novembre 1864 il colonnello John M. Chivington – al comando del terzo Reggimento dei volontari del Colorado – circondò in un’ansa del fiume Sand Creek i Cheyenne del capo Pentola Nera e li attaccò all’alba.
Nel campo non c’erano guerrieri – che s’erano recati lontano a caccia di bisonti – ma solo vecchi, donne e bambini: a nulla valse l’offerta di pace di Pentola Nera, che si avviò sventolando una bandiera americana verso il colonnello Chivington. Fu uno dei primi a cadere, e la vera tragedia iniziò subito dopo: ne riportiamo un breve estratto (2):
Il giorno seguente faceva molto freddo ed i cadaveri degli indiani erano pietrificati dal gelo: furono ammassati in una chiesetta addobbata per il Natale, dove si poteva leggere la scritta: “Pace agli uomini di buona volontà”.
Appena qualcuno cita episodi del genere viene subito tacciato d’essere antiamericano, eppure le guerre indiane contarono decine di questi massacri, così come le fucilazioni di prigionieri nella Seconda Guerra Mondiale furono più frequenti di ciò che si crede. Il Vietnam fu l’apocalisse che sappiamo ed oggi in Iraq ed in Afghanistan va in scena lo stesso copione.
Purtroppo, una nazione che vive isolata dal resto del mondo tende a considerare inferiori tutti i popoli dei quali non riesce a comprendere lo stile di vita, le tradizioni, le religioni. Dai messicani ai vietnamiti, dagli afgani agli iracheni, tutto ciò che non è in linea con il modello americano è sbagliato, dunque da correggere. Se non è possibile correggerlo allora si deve estirparlo, e se non è nemmeno possibile sradicarlo allora va distrutto. Questo, purtroppo, è in sintesi il pensiero di quella metà degli americani che hanno sorretto Bush per due mandati, che comandano l’esercito e che delineano la politica estera. Ciò non significa che non esista un’altra America – quella dei diritti civili, delle sacrosante libertà individuali, dell’anelito di libertà che ha illuminato musica e letteratura – ma oggi quella parte non conta più nulla, non ha voce in capitolo.
La Germania non fu forse la patria della filosofia europea moderna, la terra dove furono scritte le migliori sinfonie, dove arti e letteratura erano il “sale” del vivere? Bastò un ristretto gruppo d’esaltati – sorretto dal potere economico che temeva l’avanzata delle leghe comuniste – e la terra di Beethoven e di Hegel cadde nell’abisso del nazismo.
Apriamo gli occhi e riconosciamo per quello che è la realtà che abbiamo di fronte: smettiamola con il politically correct perché, a forza di tacere, ogni giorno che passa si riempiono nuove fosse di cadaveri.
Carlo Bertani
bertani137@libero.it www.carlobertani.it
Note:
[1] Ezio Costanzo – Sicilia 1943 – Le Nove Muse – 2003
[2]Testimonianza di Robert Brent – un “canarino” dell’epoca che testimoniò di fronte al Congresso USA nel 1865 – ma nessuno prese provvedimenti per il comportamento del reparto e dei suoi ufficiali, ed il villaggio di coloni che sorse presso il Sand Creek fu chiamato (e tuttora si chiama) Chivington.
Non v'è parola che suoni bene sulle labbra dei re come la parola "perdono".
William Shakespeare – Riccardo II – Atto V, Scena III
Dall’Iraq si susseguono notizie di massacri contro cittadini inermi, famiglie sterminate all’interno delle loro case con l’esplosivo, ragazzini ammazzati come cani agli angoli delle strade. Perché si giunge a tanto? Eppure, i giovani soldati americani che sparano non sono dei marziani e neppure dei selvaggi analfabeti: sono persone come noi, che prima di pattugliare le polverose strade irachene navigavano in Internet seduti alle loro scrivanie d’adolescenti, corteggiavano le ragazze, giocavano a baseball o a calcio.
Come può avvenire la brutale trasformazione che rende un giovane aperto alla vita un assassino? Cosa muta nel suo animo per condurlo a varcare i confini della comune morale e scatenare gli impulsi del sangue? Per rispondere a questa domanda dobbiamo soffermarci a riflettere sulle strategie d’addestramento dei militari, di qualsiasi nazione essi siano.
Il passaggio dall’esercito di leva a quello professionale è il primo passo: i legami con la società vengono tranciati di netto, nel momento stesso nel quale il militare varca il portone del centro d’addestramento. Mentre nell’esercito di leva c’erano ragazzi ventenni che erano “prestati” alle armi per un determinato periodo, scegliendo la carriera militare il giovane sa che da quel momento in poi quella sarà la sua “casa” e quello il suo mondo.
Qui hanno buon gioco le tecniche psicologiche d’addestramento, che iniziano ad inculcare nel giovane un semplice concetto: il mondo che hai lasciato ti ha rifiutato e noi ti abbiamo accolto; non dare più ascolto a quel mondo che ti ha gettato via come uno straccio inutile, ma a noi che ti trasformeremo in uno specchio lucente.
Lo splendore che dapprima abbaglia si chiama “onore” – concetto assai vago nella miseria della guerra moderna, estinto da almeno un paio di secoli nella prassi militare – con il quale il giovane viene invitato a misurarsi con schiere d’eroici soldati che, prima di lui, illuminarono di gloria il battaglione.
Il secondo passo è il più iniquo e subdolo: siccome sei stato rifiutato, solo noi ti proteggeremo e soltanto i tuoi commilitoni dovrai proteggere, con un patto di sangue che – come tutti i patti di sangue – non potrà che generare altro sangue.
Questo è il giovane che, terminato l’addestramento, sbarca in Iraq senza conoscere la lingue e le tradizioni di un altro popolo, senza saper cogliere la differenza fra un guerrigliero ed un padre di famiglia che si reca al lavoro. Spaurito, si rifugia ancor più in ciò che gli resta: gli amici, i commilitoni con i quali si è addestrato, gli altri soldati che – prima di lui – hanno percorso il suo sentiero.
Ecco da dove nasce “l’uomo nuovo” che dovrebbe portare la “democrazia” in quel paese martoriato: da un coacervo di pulsioni tutte tese soltanto a difendere una divisa ed a colpire chiunque non la rispetti o l’attacchi. Ogni mediazione intellettiva scompare e se – come ad Haditha lo scorso novembre – una mina uccide un commilitone si spara all’impazzata uccidendo chi capita, donne e bambini – non importa – perché ciò che offende il plotone deve essere offeso giacché tocca corde profonde, ossia l’unica istituzione che il ragazzo oramai riconosce, alla quale può fare riferimento e dalla quale può sperare di trovare aiuto.
Diversa è la situazione per i soldati israeliani (di leva), i quali hanno talvolta contestato gli ordini e centinaia di essi hanno preferito il carcere militare piuttosto che compiere azioni assassine nei territori palestinesi. La differenza? I soldati di Tzahal sono dei civili che prestano servizio militare e sanno bene che – terminata la detenzione – potranno tornare alla vita civile. Ciò non significa che finire in un carcere militare sia una scelta facile: per tutta la vita dovranno giustificare il loro atto e pochi saranno disposti a comprenderli.
Negli USA nessuno si è mai opposto alla strategia d’addestramento imperante – dettata dallo stesso Samuel Huntington, uno fra i primi neocon e forse il più ideologicamente radicato, nelle undici edizioni del suo “Manuale del soldato USA” – ed ha provato a criticare il modello?
I due canarini
Nanterre, poi Milano, Francoforte, Vienna... l’Europa studentesca prende fuoco in quel maggio del 1968: c’è poco senso e tanta voglia in quella rivolta. D’altronde, quando mai si può chiedere ad un rivoluzionario d’essere assennato?
La rivolta è iniziata prima negli Stati Uniti – a Berkeley, in California – perché i giovani americani hanno un motivo in più per ribellarsi: per loro non si tratta soltanto di mettere in crisi il sistema di potere, bensì di rifiutare la cartolina militare, di non farsi ingabbiare in una divisa con un fucile in mano.
La guerra è lontana ma il dolore è vicino: nelle risaie del Vietnam si muore, ma è in America che si piangono i figli che tornano in un sacco di plastica, sbarcati dai grandi C-130 dell’USAF. Prima della fine della guerra, torneranno nei sacchi in 60.000, più una miriade di feriti e mutilati: una generazione distrutta.
Non fu così per la generazione che combatté le seconda guerra mondiale, che tornò dalla guerra vittoriosa e senza sensi di colpa collettivi e condivisi: in Vietnam fu diverso, fu la guerra stessa ad entrare in crisi nelle menti di chi la doveva combattere.
Passata l’infatuazione della propaganda, e dimenticato l’orgoglio della divisa, ai giovani che partivano per il Vietnam rimanevano i dubbi per una guerra combattuta contro un nemico invisibile, in un territorio lontano e così diverso dal proprio, senza trovare una valida ragione per quello che stavano facendo.
Nelle risaie dell’Indocina si consumò il dramma di una generazione, che sarà tormentata da ciò che vide per sempre, finché avrà vita: non basta e non basterà mai il revisionismo di Hollywood – quello di We were soldiers, per intenderci – a pacificare le coscienze.
Mentre in Europa e negli USA si urla contro il potere – e si vorrebbero sostituire l’immaginazione e la fantasia al paternalismo ed alla retorica – la compagnia Charlie avanza in una delle mille risaie del Vietnam: tutte uguali, al Nord come al Sud.
Dov’è il nemico? Charlie (così gli americani chiamavano i Vietcong) può essere dappertutto: può nascondersi per mesi alla tua vista, ma sai che t’osserva. Ti guarda attraverso gli occhi socchiusi dei vecchi nei villaggi o nello sguardo neutro delle giovani contadine che mondano il riso.
Poi si fa vivo, compare quando meno te lo aspetti. Mentre stai per addormentarti sotto le stelle – e ti rifugi nel sogno d’essere in Arizona o nel Montana – la jungla prende fuoco, sprizzano faville dal nero dei manghi e dalla profumata vegetazione tropicale: qualcuno urla di rabbia in una lingua sconosciuta, qualcun altro urla di dolore nella tua lingua.
Così nasce lo spirito di corpo, oltre le convenzioni e le opinioni; si vive una sospensione del vivere e quel Limbo è uguale per tutti, intriso d’angoscia, di paura e di tormenti: lentamente la tua vita s’attenua, scompare e si scioglie nella vita del plotone.
Ci si salva o si va a fondo tutti insieme, questa è la legge del plotone; nemmeno i morti si lasciano al nemico, perché i loro corpi fanno parte di quell’unico organismo che si muove nella jungla: il plotone, la compagnia. Quasi non esiste più l’esercito, quello con la “E” maiuscola: si fottano i generali e le loro stellette; i generali se ne stanno al sicuro a Saigon ed a Da Nang, mica vengono a prendersi le fucilate da Charlie.
Ogni plotone, ogni compagnia finisce per avere una storia a sé; un girone infernale dopo l’altro scrive con il sangue la sua storia, la interseca appena con il ricordo della Patria lontana: lo sussurra soltanto – sommessamente – quando c’è un sacco di plastica da caricare su di un elicottero.
Tutti hanno perso un amico in Vietnam, nessuno può estraniarsi e giocare il ruolo della verginella: anche le giovani reclute appena giunte – se sopravvivono al primo impatto con Charlie – diventano presto silenti comparse del plotone, attoniti spettatori dell’orrore.
Il vuoto regna nelle menti della compagnia Charlie mentre rastrella la solita risaia, minuscolo tassello di un organismo che chiamano Vietnam: il caldo e la fatica fanno il resto, e si cammina senza pensare.
Si passa nei villaggi e si cercano informazioni; le solite domande: se hanno visto gente armata nei dintorni, se ci sono soldati regolari del Nord Vietnam nella jungla. Promettono favori e qualche spicciolo, ma le risposte sono sempre le stesse: non c’è nessuno, io pianto il riso, io raccolgo il riso, io prego gli antenati. Eppure Mike e David non sono stati uccisi dal riso e dagli antenati: sono morti vomitando il loro sangue su questa terra che brulica di vermi e d’insetti, col ventre squarciato ed il sangue che usciva a fiotti, con le compresse di medicazione premute contro le viscere dai commilitoni per non lasciar sfuggire la vita; non andartene, non andartene proprio adesso...
Succede allora che una risposta troppo evasiva, due occhi che trasmettono odio facciano passare il Rubicone, sollevino la mente dalle tradizioni e dai regolamenti: in quell’istante si torna ad essere bestie fameliche in cerca di vendetta – sangue scaccia sangue – ed il sangue di Mike che usciva a fiotti dalla bocca è ancora troppo vicino, troppo radicato nella memoria collettiva del plotone.
Parte una scarica di mitra e qualche corpo rimane nella polvere: ora tutti si muovono rapidamente, americani che corrono a vedere cosa è successo e vietnamiti che piangono, che urlano, che inveiscono.
Qualcuno non capisce cos’è successo, altri non s’interessano a capire: l’odio distilla lentamente ma inesorabilmente, corre veloce dai cappelli di paglia ai caricatori dei fucili. Poi sborda, deflagra e due memorie collettive si scontrano: da un lato l’odio silente dei contadini, dall’altro quello rabbioso del plotone; il sangue di Mike e di David annebbia gli occhi, e si spara.
Si spara, si spara all’impazzata su tutto quello che si muove. Giovani, donne, vecchi, bambini, animali, capanne: tutto deve essere distrutto per esorcizzare la paura e purificare il sangue di Mike e di David, per lavare quella macchia di terrore dalla memoria condivisa del plotone.
Non contano più gradi o comandi, suppliche o invettive: il rumore delle armi copre tutto in un parossismo di tregenda, di sacrificio propiziatorio.
Il capitano Medina ed il tenente Calley – che verranno in seguito accusati d’infamia – non sono nulla in quel girone infernale: anche i loro gradi si sono sciolti nell’acre odore della cordite, nel frastuono infernale dei mitragliatori.
Chissà quando sarebbe finita la mattanza. Giungono casualmente dal cielo due uomini: il tenente-pilota Hugh Thompson ed il soldato Lawrence Colburn, mitragliere di destra dell’elicottero OH23, 123° squadrone della “Cavalleria dell’Aria”. Osservano attoniti quel macello che sta avvenendo sotto i loro occhi: non capiscono. Poi Thompson decide d’abbassarsi per domandare cosa sta succedendo, cosa significano quei mucchi di cadaveri addossati ai bassi argini delle risaie: i due dell’elicottero non fanno parte del plotone, non sono preda della perfida ipnosi. Dal basso rispondono di farsi gli affari loro, che lì va tutto bene e che stanno facendo soltanto il loro dovere.
Thompson riflette qualche secondo, poi prende la decisione che più gli costerà cara nella vita, da militare e da civile: ordina al mitragliere Colburn di puntare la mitragliatrice pesante dell’elicottero sulla compagnia Charlie e, se non finisce la mattanza, di sparare.
Una raffica d’avvertimento, che passa alta sopra alle teste di Medina e di Calley, li fa rinsavire: impietriti, fermano il massacro.
Thompson e Colburn, con il loro intervento, riuscirono a salvare la pelle agli ultimi 10 vietnamiti che ancora erano in vita nel villaggio di My Lai, ma le vittime accertate furono 504, soprattutto donne, vecchi e bambini. Ovviamente ci fu un processo, ma tutti sappiamo come vanno a finire queste cose: non ci fu praticamente punizione per nessuno, giacché My Lai fu uno solo dei molti macelli senza senso operati dagli americani in Vietnam.
Anzi, qualche punizione – non apertamente dichiarata ma concretamente sottesa – ci fu: in tutti i processi nei quali Thompson e Colburn vennero chiamati a testimoniare, gli inquirenti militari non cessarono mai di chiamarli “i due canarini”.
Oggi, i due provano a spiegare ai loro figli Abu Ghraib: ci provano come possono, come riescono, tanto sono diventati – per l’Esercito degli Stati Uniti – soltanto due “canarini”, due soldati che avevano provato a “cantare” una canzone diversa da quella che cantò la compagnia Charlie a My Lai, Vietnam centrale, 1968.
Non fate prigionieri!
Il 10 luglio del 1943, 160.000 soldati anglo-americani, 600 carri armati, 1.800 cannoni e 14.000 automezzi prendono terra presso Noto – sulla costa meridionale siciliana – per dare l’assalto al più debole alleato di Hitler: l’Italia. La tempesta di fuoco è impressionante e la supremazia tecnologica senza pari, ma non sufficiente per portare a termine quella “guerra lampo” che i comandi alleati s’attendono: ci vorranno 38 giorni di combattimenti e 4.000 morti per arrivare a Messina.
Contrariamente a quanto avevano raccontato loro gli ufficiali superiori, italiani e tedeschi combattono campo per campo, oliveto per oliveto.
Proprio in mezzo alle vigne ed agli olivi sorge il piccolo aeroporto di Biscari – un campo secondario – dal quale però decollano i micidiali Ju-87 Stuka tedeschi per colpire le retrovie americane. Il 14 luglio 1943 il 180° reggimento di fanteria USA va all’assalto dell’aeroporto, difeso da un reparto italiano di tiratori scelti e dai paracadutisti tedeschi della “Hermann Goering”: i fanti del 180° non hanno mai combattuto e l’attacco al piccolo aeroporto è il loro battesimo del fuoco (1).
Lo scontro è aspro e solo verso mezzogiorno le truppe dell’Asse iniziano a cedere: un gruppo di 38 soldati italiani s’arrende e gli uomini s’accoccolano nella polvere bruciata dal sole siciliano, stanchi, stufi di guerra, pronti a finire dietro al filo spinato di un campo di prigionia. Invece, il capitano John T. Compton dà un ordine che sulle prime non è nemmeno compreso ma che viene prontamente attuato: i 38 italiani vengono allineati al bordo della strada e fucilati all’istante, senza motivo ed in oltraggio a tutte le leggi di guerra, ma non finisce qui.
Poco dopo s’arrendono altri 45 italiani e 3 tedeschi, 38 dei quali (probabilmente quelli che erano in grado di camminare) sono affidati alle cure del sergente Horace T. West per essere portati nelle retrovie ed essere interrogati.
Il sole cuoce il cervello sotto il pesante elmetto e ci sono 14 chilometri da percorrere a piedi per giungere alla meta. Forse condizionato dal comportamento del superiore, forse disturbato dalla lunga marcia sotto il sole cocente, il sergente West dopo un paio di chilometri si volta e sventaglia con il mitra la colonna dei prigionieri.
C’è chi muore all’istante, chi è ferito, chi tenta di fuggire: implacabile, il sergente West riserva un’altra raffica per chi si allontana poi, con la pistola d’ordinanza, dà il colpo di grazia a chi geme a terra, a chi chiede pietà, a chi striscia per raggiungere il riparo di un cespuglio.
Inutile raccontare che tutto rimase impunito: se nemmeno uno dei piloti americani che causarono – con il loro colpevole comportamento in aria – la tragedia del Cermis ha pagato, come pretendere che qualcuno pagasse per quei crimini di guerra commessi nel girone infernale della Sicilia nel 1943?
Per puro caso, il cappellano militare William E. King s’imbatté il giorno seguente nei cadaveri lasciati a gonfiare al sole – che presentavano quasi tutti i segni del “colpo di grazia” – e chiese conto ai comandi dell’accaduto. Tutto fu insabbiato poiché saltarono fuori tanti e tali “altarini” che la Corte Marziale USA decise precipitosamente di condannare West all’ergastolo (ma non fu degradato!) da scontare, ovviamente, negli USA: pochi mesi dopo era libero come un uccellino.
Ciò che fece precipitosamente chiudere l’inchiesta furono le deposizioni d’alcuni militari USA, i quali affermarono – candidamente – d’aver soltanto eseguito gli ordini, giacché sulle navi che li portavano in Sicilia avevano ascoltato un proclama, dello stesso generale Patton, che li esortava a “non fare prigionieri”. Nessuno seppe più nulla di quei soldati italiani, nemmeno il loro nome: furono probabilmente conteggiati nel novero dei “caduti in combattimento”, e neppure oggi le famiglie sanno se fu realmente così oppure se caddero sotto i colpi degli aguzzini americani, che avevano scambiato la Sicilia con il Montana, le truppe italiane con il Little Big Horn.
Buon sangue non mente
Ogni albero ha le sue radici, e gli Stati Uniti d’America – invece di correre per il pianeta con la parola “democrazia” sulle labbra – farebbero meglio a chiedere perdono ed a provare vergogna.
All'alba del 29 novembre 1864 il colonnello John M. Chivington – al comando del terzo Reggimento dei volontari del Colorado – circondò in un’ansa del fiume Sand Creek i Cheyenne del capo Pentola Nera e li attaccò all’alba.
Nel campo non c’erano guerrieri – che s’erano recati lontano a caccia di bisonti – ma solo vecchi, donne e bambini: a nulla valse l’offerta di pace di Pentola Nera, che si avviò sventolando una bandiera americana verso il colonnello Chivington. Fu uno dei primi a cadere, e la vera tragedia iniziò subito dopo: ne riportiamo un breve estratto (2):
“Vidi cinque squaws nascoste dietro un cumulo di sabbia. Quando le truppe avanzarono verso di loro, scapparono fuori e mostrarono le loro persone perché i soldati capissero che erano squaws e chiesero pietà, ma i soldati le fucilarono tutte. Vidi una squaw a terra con un gamba colpita da un proiettile; un soldato le si avvicinò con la sciabola sguainata; quando la donna alzò un braccio per proteggersi, egli la colpì, spezzandoglielo; la squaw si rotolò per terra e quando alzò l'altro braccio, il soldato la colpì nuovamente e le spezzò anche quello. Poi la abbandonò senza ucciderla. Sembrava una carneficina indiscriminata di uomini, donne e bambini. Vi erano circa trenta o quaranta squaws che si erano messe al riparo in un anfratto; mandarono fuori una bambina di sei anni con una bandiera bianca attaccata a un bastoncino; riuscì a fare solo pochi passi e cadde fulminata da una fucilata. Tutte le squaws rifugiatesi in quell'anfratto furono poi uccise, come anche quattro o cinque indiani che si trovavano fuori. Le squaws non opposero resistenza. Tutti i morti che vidi erano scotennati. Scorsi una squaw sventrata con un feto, credo, accanto. Il capitano Soule mi confermò la cosa. Vidi il corpo di Antilope Bianca privo degli organi sessuali e udii un soldato dire che voleva farne una borsa per il tabacco. Vidi una squaw i cui organi genitali erano stati tagliati... Vidi una bambina di circa cinque anni che si era nascosta nella sabbia; due soldati la scoprirono, estrassero le pistole e le spararono e poi la tirarono fuori dalla sabbia trascinandola per un braccio. Vidi un certo numero di neonati uccisi con le loro madri. " (In un discorso pubblico fatto a Denver non molto tempo prima di questo massacro, il colonnello Chivington sostenne che bisognava uccidere e scotennare tutti gli indiani, anche i neonati. "Le uova di pidocchio fanno i pidocchi" dichiarò.)”
Il giorno seguente faceva molto freddo ed i cadaveri degli indiani erano pietrificati dal gelo: furono ammassati in una chiesetta addobbata per il Natale, dove si poteva leggere la scritta: “Pace agli uomini di buona volontà”.
Appena qualcuno cita episodi del genere viene subito tacciato d’essere antiamericano, eppure le guerre indiane contarono decine di questi massacri, così come le fucilazioni di prigionieri nella Seconda Guerra Mondiale furono più frequenti di ciò che si crede. Il Vietnam fu l’apocalisse che sappiamo ed oggi in Iraq ed in Afghanistan va in scena lo stesso copione.
Purtroppo, una nazione che vive isolata dal resto del mondo tende a considerare inferiori tutti i popoli dei quali non riesce a comprendere lo stile di vita, le tradizioni, le religioni. Dai messicani ai vietnamiti, dagli afgani agli iracheni, tutto ciò che non è in linea con il modello americano è sbagliato, dunque da correggere. Se non è possibile correggerlo allora si deve estirparlo, e se non è nemmeno possibile sradicarlo allora va distrutto. Questo, purtroppo, è in sintesi il pensiero di quella metà degli americani che hanno sorretto Bush per due mandati, che comandano l’esercito e che delineano la politica estera. Ciò non significa che non esista un’altra America – quella dei diritti civili, delle sacrosante libertà individuali, dell’anelito di libertà che ha illuminato musica e letteratura – ma oggi quella parte non conta più nulla, non ha voce in capitolo.
La Germania non fu forse la patria della filosofia europea moderna, la terra dove furono scritte le migliori sinfonie, dove arti e letteratura erano il “sale” del vivere? Bastò un ristretto gruppo d’esaltati – sorretto dal potere economico che temeva l’avanzata delle leghe comuniste – e la terra di Beethoven e di Hegel cadde nell’abisso del nazismo.
Apriamo gli occhi e riconosciamo per quello che è la realtà che abbiamo di fronte: smettiamola con il politically correct perché, a forza di tacere, ogni giorno che passa si riempiono nuove fosse di cadaveri.
Carlo Bertani
bertani137@libero.it www.carlobertani.it
Note:
[1] Ezio Costanzo – Sicilia 1943 – Le Nove Muse – 2003
[2]Testimonianza di Robert Brent – un “canarino” dell’epoca che testimoniò di fronte al Congresso USA nel 1865 – ma nessuno prese provvedimenti per il comportamento del reparto e dei suoi ufficiali, ed il villaggio di coloni che sorse presso il Sand Creek fu chiamato (e tuttora si chiama) Chivington.
0 Comments:
Posta un commento
<< Home